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I Semi

Sono una raccolta di miei scritti fino al 2005, anno in cui ho pubblicato "Semi d'Autunno".
Non tutto quello che troverete in questa sezione è stato poi pubblicato nel libro, e man mano continuerò a pubblicare delle poesie inedite.
Leggete anche GLI ALBERI, le mie nuove poesie.

Buona lettura.
Martin

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Storia di un vampiro

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Si spegne una luce.
Una luce al neon.
Azzurra.
Fredda.

Nell’oscurità si vede dopo poco una piccola combustione, probabilmente prodotta da un cerino.
Dopo di che si accende una sigaretta e si intravede parte del volto di quello che si direbbe un maschio, bianco.
Altro non si può dire in quanto egli porta occhialini piccoli, rotondi e scuri a celargli lo sguardo e un cappellino nero.
Tutto, in questa piccola porzione di realtà, è scuro.
Si direbbe quasi che anche l’animo dell’uomo sia nero. Nero come la solitudine, che porta alla malinconia.
Proprio come la stanza, il berretto e gli occhiali da lui portati.
Ora si odono dei rumori.
Come prodotti da degli stivali di cuoio su un pavimento di pietra.
Si dirigono lontano da me.
Nella direzione opposta.
Si può chiaramente sentire un suono stridulo e a seguire due elementi vengono inseriti nella mia visione.
La luce che si fa largo nella breccia che l’uomo ha prodotto nella realtà in cui si trovava, e poi un rumore. Troppo chiaro e famigliare per non riconoscerlo immediatamente.
La pioggia.
Già, la pioggia continua compagna della notte nelle mie visioni.
Quel suono così vicino e quella capacità di ovattare la realtà circostante, che solo lei ha.
Ora i passi dell’uomo si rivolgono a un altro spazio.
I miei occhi lo seguono, vogliosi di scoprire il volto, la storia di quell’uomo.
Capire cosa si cela oltre alla tangibilità del suo esistere.
Ora posso finalmente scoprirne l’abbigliamento.
Porta un cappotto nero, certamente di pelle, e di sicuro quel cappotto è stato usato più e più volte.
Esso arriva fino quasi alle caviglie dell’uomo della mia visione.
Lo nasconde totalmente sembra quasi avvolgerlo, proprio come ha fatto prima il buio.
Quel cappotto ha perso la sua naturale lucentezza, e porta sopra le incisioni del tempo, pioggia, sole e probabilmente di altri scontri.
Si può dopo un’attenta analisi intravedere sulla parte di giacca che protegge la spalla un piccolissimo foro.
Con una bruciatura attorno.
Chiaramente prodotto dal passaggio di un non naturale proiettile.
Facile che esso abbia causato non pochi fastidi, all’uomo, al soggetto del mio ricorrente sogno.
E poi scorgo delle strisce di sangue, delle piccole gocce di questo fluido vitale qua e là nel suo “mantello”. Forse suo o forse di qualcun’ altro
La pioggia non lo risparmia.
Le piccole lacrime prodotte dalla luna lo colpiscono con la stessa irruenza e continuità con cui un violinista seduce e suona il suo violino; sua unica salvezza è solo il cappotto lungo, nero di pelle vecchia e il copricapo.
Si scorge la luna sopra di lui, chiara, perfettamente tonda e sola nel cielo proprio come il giovane che sto osservando.
Visto da dietro, lui ha un aspetto che definirei importante, quasi sicuro, o forse semplicemente abituato a tutto ciò che lo circonda, con, sembra, una meta nel suo vagare.
Come se sapesse dove sta andando, e che cosa troverà.
Non sembra disturbato né dalla pioggia, né tanto meno dalla totale assenza di forme di vita intorno.
Non un’anima viva lo circonda.
Eppure non sembra solo.
È come se fosse accompagnato da qualcuno o qualcosa in questo viaggio, che però io non vedo.
Ma sento.
Percepisco la vicinanza di qualcuno a lui.
Si direbbe quasi una donna.
Si ferma.
L’uomo interrompe dopo solo pochi istanti il suo cammino, e rivolge lo sguardo verso la finestra di un palazzo alla sua destra.
Lì al primo piano c’è una luce accesa, e due figure si disegnano sul vetro, un uomo e una donna.
Entrambi capiamo subito, immediatamente, cosa condividono i due, sono abbracciati, si stanno scambiando piccoli frammenti di tenerezze, e stanno costruendo qualcosa, che tra poco sarà solo ricordo.
Sento la sua voce per la prima volta.
Dice, mormora a bassa voce una frase semplice, talmente naturale da farmi esplodere il cuore: “Sara, perché sei volata via..”
Non va oltre.
La frase è interrotta, come se mancasse il fiato, come se i polmoni avessero deciso di non lasciargli altro alito, se solo per ferirsi ancora.
Ora però mi trovo davanti a lui, e adesso è lui che segue me.
Io cammino, indietreggio in vero, come se le mie gambe sapessero dove stiamo andando.
Lui non si accorge di me.
Ha altro cui pensare.
Noto con reale dispiacere che la pioggia riesce a passare le barriere della visiera del suo cappellino della “Nike” e lo rigano; tanti minuscoli cristalli gli graffiano le guance.
Ma lui continua imperterrito a camminare verso una direzione ben precisa e nulla, adesso, sembra poterlo fermare o turbare.
Sotto la giacca lunga di pelle nera, porta una maglia di color scuro, di lana credo, dà l’impressione d’essere calda, e poi ancora, indossa un paio di jeans neri, anch’essi di pelle. E anch’essi certamente usati, non credo gli abbia comprati da poco.
Sono lisi in più punti e con varie smagliature e venature, atte ad indicarne l’usura.
Stivali spagnoli, non curati, senza nessun disegno particolare lo difendono dall’asfalto.
È tutto ciò che scorgo del suo abbigliamento.
Il resto continua ad essere come dietro un velo semi trasparente.
Come se lo stessi osservando da dietro delle lenti umide, per il vapore.
La cosa prende sempre più parte della mia attenzione e la curiosità mi sta dando quasi fastidio.
Come un prurito che non riesco a lenire.
Così continuo a osservarlo sicuro che farà qualcosa che mi darà la possibilità di riconoscerlo, visto che sono certo di conoscerlo.
È come se lo avessi già visto, come un’immagine stampata sul mio volto, impressa nelle carni della mia memoria.
Forse un compagno delle scuole, un compagno dei momenti felici, quando tutti i problemi si risolvevano con un abbraccio di mamma, con un sorriso di una bambina, un occhiolino di un amico.
Ecco forse lui era un mio amico da piccolo, solo, che adesso non lo riconosco ancora, anche se l’odore mi è tremendamente famigliare.
Ma ecco che il mio uomo si ferma davanti ad un portone.
Di una casa anonima, anch’essa vecchia, come tutto ciò che riveste dentro e fuori il giovane.
Toglie la mano destra dalla tasca dell’improvvisato impermeabile  e mi mostra un mazzo di chiavi.
Lo soppesa quasi, si sofferma su tanti particolari, come un ciondolo e un anello rapiti di sicuro a una donna e imprigionati per sempre in quel cerchio di metallo insieme a chiavi, tante chiavi.
Scuote leggermente la testa, poi scelta la chiave la introduce lentamente dentro il nottolino, poi la gira sicuro, quasi annoiato, fino a che non si sente il rumore della porta che si apre con uno scatto metallico.
Scosta l’anta, e si ferma sul pianerottolo, girandosi indietro guarda in una direzione, focalizzando un punto che per me è solo il nulla.
Proprio come se stesse aspettando qualcuno che lo seguiva, e che di sicuro arriverà con un sorriso a spazzare via tutta l’uggia che quest’uomo si porta sulle spalle.
Nessuno.
Abbassa lo sguardo, scosta lievemente con l’indice della mano libera la visiera del cappello in su, poi si dirige verso una rampa di scale.
Ne percorre un gradino, forse due, poi si blocca nuovamente, chissà cosa passerà in questo momento nella testa di questo ragazzo, poi capisco, si gira, ma non di scatto, e guarda l’ascensore posto alle sue spalle, davanti alla rampa di scale.
Ha due strade da fare, una solitaria e faticosa salita verso l’alto, o la possibilità di lasciarsi accompagnare, di farsi trasportare, nella stessa direzione.
Sceglie di appoggiarsi a qualcosa.
Pigia il tasto per richiamare l’ascensore, il led mi mostra l’ultimo piano del fabbricato, il sesto.
Dopo una discreta quantità di tempo arriva.
Si apre la porta e lui confluisce la sua fisicità e la sua essenza dentro questo contenitore, sicuro di non aver sbagliato strada.
Lo perdo, ma lo ritrovo al suo piano, il sesto.
Gli ho lasciato inconsapevolmente la possibilità di stare un attimo da solo.
Lo seguo fino a casa sua, la sua porta il suo campanello, il suo zerbino, tutti elementi molto famigliari.
Mi ricordano una donna, non saprei quale, ma mi ricordano una ragazza a cui ho voluto molto bene, e non so perché trovo naturale esprimermi al passato, e al non presente. Mi viene naturale.
Mentre penso questo, lui è già entrato nella sua tana, riesco a malapena a entrare dopo di lui, poco prima che mi chiuda fuori.
Si toglie, o meglio lascia cadere la giacca sul pavimento, e butta su un divano il cappello.
Appoggia gli occhiali su un tavolo di legno, semplice, ma tuttavia grazioso.
Una nuovo elemento mi si presenta, porta i capelli lunghi fino alle spalle, costruiti e uniti da dei dredd, non li avevo visti prima, probabile che fossero intrappolati sotto la giacca, il bavero alzato e il cappello della “Nike”.
Gli stanno bene, gli dona questa sua capigliatura, non me lo rendono grezzo o maleducato nell’apparire, anzi.
Il volto continua a non essermi definito.
Mi sto stancando di non poterlo ancora riconoscere.
Si toglie il maglione, lo sfila e lo poggia poco ordinatamente sulla poltrona di fianco al suo fradicio cappello.
Ha una T-shirt bianca rimboccata dentro ai pantaloni. Non porta nessuna fibbia al momento.
Apre un’ armadio a muro con le ante in vetro fumé e ne preleva una bottiglia di “Johnny Walker” e un bicchiere pulito.
La bottiglia non è nuova, e lui riempie il bicchiere fin quasi all’orlo.
Lo appoggia sul tavolo. Tira poi fuori da un cassetto sotto lo stesso tavolo due quaderni.
Prende una sedia e la posiziona davanti a tutto ciò che ha preso finora, e si dirige sicuro in un’altra stanza.
Non mi sento di seguirlo, vengo ipnotizzato da quei quaderni.
Mi avvicino, sono vecchissimi, sgualciti, come se fossero antichi, solo che non riesco in nessun modo a aprirli, so che lì troverò tante risposte alle mie domande, forse più di quelle che mi spettano, sto in fin dei conti invadendo lo spazio di un altro.
Esce della musica dalla stanza in cui era sparito il mio “amico”.
Mi sembra di riconoscere “Fur Elise” di Beethoven, il volume è accettabile, serve solo come colonna sonora, tanto per spezzare il silenzio che produciamo noi due.
Torna scalzo.
Si siede, scruta con sguardo d’intesa il bicchiere pieno di alcool, e ne da una prima sorsata, profonda, di chi conosce bene il sapore di quella bevanda, di chi è avvezzo a berlo e di chi conosce bene gli effetti e anzi li ricerca.
Apre poi il primo, da sinistra, quaderno.
È in realtà un porta foto.
Pieno di foto incollate sopra, ci sono foto di paesaggi, di persone, lo sfoglia quasi distratto, come se esse gli servissero solo come trampolino che da su oceano immenso e paurosamente profondo di ricordi.
Però si sofferma su una serie di immagini, tutte recanti lo stesso soggetto, una donna.
Graziosa, fragile, con capelli biondo scuro e occhi dello stesso colore di un prato sfiorato dalla rugiada, la mattina, in autunno.
Labbra sottili, quasi taglienti, e sorriso di una perfezione lacerante.
Sincero, è dimostra che lei in quel momento della sua vita era felice, perché era con lui, credo.
Me lo fa pensare il fatto che in alcune immagini da me rapite il volto del suo lui sia lo stesso, dello stesso materiale di cui è composto il viso dell’uomo che ho finora seguito: il nulla.
Mascherato dalla nebbia, offuscato fino a sparire.
Tornando alla ragazza, il volto presenta in centro un grazioso nasino perfettamente in armonia con il resto, i lineamenti leggeri e poco marcati, il corpo fresco, giovane, sembra quasi un corpo che non possa trovare mai la realtà della vecchiaia, troppo bello per incontrare i segni del tempo.
È l’unica cosa che vedo circondare quest’uomo che non mi si presenta come vecchio.
Anche se puzza tremendamente di passato.
Percepisco chiaramente i battiti del cuore del ragazzo come fermi, e gli occhi, lo so, Cristo, non li vedo, ma ne sono certo che traboccano lacrime. Amare, per qualcosa di raggiunto ma non tenuto, non catturato.
Del resto come poter catturare un fiore di così rara onestà e completezza, quale bastardo potrebbe. Anche il più agguerrito guerrafondaio si sarebbe arreso davanti a quella Madonna.
Pura, sincera come il pianto di un bambino.
Come la visione di un tramonto guardato con la propria amata.
Ecco che gira velocemente le pagine, poi di scatto lo chiude.
E ci pioggia la mano,tutto il palmo sopra, come se tutti quelli spettri non potessero trovare via di fuga.
Con la mano non occupata a far da macigno cattura il bicchiere, ora pieno solo per metà, e lo finisce, sicuramente per strozzare qualcosa che gli stava uscendo dalle labbra forse un urlo, ma ecco, finito il liquido giallastro e dall’odore forte  l’urlo gli esce dalla bocca, e lo sguardo rivolto verso il cielo, il soffitto, o forse qualcosa di ancora oltre.
Pronuncia, intorpidito dal dolore e soffocato dalle lacrime, un nome, non nuovo alle mie orecchie, ripete per la seconda volta quel nome.
Ora mi è tutto maledettamente chiaro.
Sara era la sua donna.
Era.
Sbatte una testata sul tavolo, come se nel pronunziare il nome fosse stato rapito verso l’alto e subito dopo l’ultima lettera fosse stato lasciato cadere.
Un tonfo sordo, dei lamenti provengono dai suoi polmoni, lascia per un momento la presa sul quaderno pieno di foto, di ricordi taglienti.
E col gomito urta il bicchiere, che cade vicino a lui, ne esce del residuo, che incalza verso il quaderno.
Appena il liquido sfiora il quaderno, lui tira su la testa e con uno schiaffo punisce il bicchiere, e allo stesso tempo sposta e ferma e interrompe il whisky. Le foto sono intonse, salve almeno per ora.
Però il bicchiere è rotto.
Poco importa, in questo momento, penso; e invece no.
Lo infastidisce  il vetro sul terreno, diviso dalla sua forma utile all’uomo.
Si alza, lo raccoglie con le mani, e lo getta in un sacco, poi si affretta al bar, ne recluta un altro di pari qualità e anch’esso viene riempito di “Johnny Walker” .lo finisce prima di spostarsi dalla sua posizione, d’un fiato, pronto per versarsene un altro po’ di quell’ intruglio infernale, che però lo accompagna fino al tavolo delle torture,  dei suoi ricordi.
Riapre l’album, ripercorre la strada che abbiamo già fatto insieme, e arriva a un nuovo capitolo della sua vita, altre facce.
Due uomini e un cane di mezza grandezza, dal pelo biancastro e arruffato.
Uno vecchio, lo capisco dalle rughe e dal colore dei pochi capelli, dall’aria provata e con lo sguardo da maestro, quello sguardo che hanno quelle persone che hanno vissuto qualcosa e che lo devono insegnare a qualcuno.
Gli occhi quasi bianchi, e con lo sguardo sicuro.
E poi un giovane, biondo cenere, capello corto e occhi azzurro grigio.
Sguardo freddo come la morte, quasi ultraterreno.
Tutte le foto presenti in questo capitolo sono di questi due uomini, e in alcune fa capolino anche il mio amico.
Ma solo in poche.
Non capisco chi essi siano, ma di sicuro hanno fatto parte per un periodo della sua vita e lo hanno aiutato.
Sembra, cioè mi sembra, mi danno l’impressione che gli abbiano insegnato qualcosa.
Non saprei dire cosa, ma di sicuro non è qualcosa che si impara a scuola. Vedo in alcuni angoli, non in primo piano strani ammennicoli, mi sanno di esoterismo, ma non chiedetemi il perché.
Mi sanno di quello, e basta.
Il mio uomo, chiude questo ricettacolo di ricordi, e si appresta dopo una sorsata a prelevare nuovi ricordi, nuovi momenti dall’altro quaderno riposto alla destra del primo.
Qua non ci sono foto.
Ma fogli inchiostrati, e vari foglietti volanti, inseriti con cura tra le pagine di questo gonfio libro.
Scorgo diverse date, con alcune parole a fianco, vedo altri ricordi cuciti tra le pagine, per sempre, trattenuti in qualcosa di fisico, di tangibile.
Anche se credo che se tutto questo bruciasse via, nel suo cuore sarebbero lo stesso dipinte le stesse emozioni, gli stessi sguardi per sempre. Solo dovrebbe fare un po’ più di fatica per trovarli.
Scritte di ogni genere, penso abbia vomitato i suoi sentimenti su quei fogli per anni, parlano di lei, della sua morte, e parlano della storia che lui ha avuto con delle creature che trascendono ogni concetto di umanità.
Lui chiama queste creature “carnefici del mio male”, o anche “bastarde creature che me l’hanno portata via”.
In alcune righe riesco a rapire il termine “vampiro” e ora capisco che lui nutre odio per quella razza.
Scorgo attimi di felicità che si alternano a secoli di odio tutti lo coinvolgono, e hanno come scopo lo sterminio per la razza che gli ha portato via la sua innocenza e la sua, in una parola, vita.
Ora anche lui è una creatura della notte, proprio come gli abomini che insegue e caccia per vendetta.
Ora anche lui è un carnefice, un assassino di creature già morte, a cui lui non dà però liberazione, ma dannazione per l’eternità.
Capisco anche che i due misteriosi uomini di prima, Lance Henriksen, il vecchio, e Kevin J. O’Connor, il giovane furono in un passato vicino, posteriore di poco alla disperazione per la perdita di Lei, il suo maestro dell’ occulto e il suo compagno di addestramento.
Anch’essi, ormai, solo ricordi, frammenti del suo personale passato.
Si alza.
E si dirige togliendosi la T-shirt bianca verso il bagno, lo seguo.
Accende la luce, posso vedere una miriade di tatuaggi, e io sono certo che essi siano, come le foto e gli scritti, delle tracce dei rimasugli dei suoi passati.
Uno di questi gli parte dalla giugulare sinistra e lo ricopre fino alla fine del gomito, passando per la spalla; è un tribale alquanto inusuale, ma comunque bello, grottescamente bello.
Poi altri, più piccoli, gli ricoprono la schiena e altri le braccia e il petto.
Ha diversi piercing sul volto, e sulle orecchie.
Uno sul labbro inferiore destro, uno sul sopraciglio sinistro e sull’orecchio dello stesso lato, su tutta la superficie. Ha uno sguardo spento, malinconico, sicuro di aver perso tutto ciò che lo rendeva vivo.
Tutto.
Gli occhi sono castano chiaro e le sopraciglia sono in questo istante corrucciate, presenta una barba di un giorno, forse due, e le labbra abbastanza sottili ripiegate all’ingiù, non volenterose di sorridere, senza niente per cui divertirsi.
Niente.
Ha ancora nello sguardo un elemento d’autodistruzione, sembra che aspetti solo la morte, dei suoi bersagli o sua. Non mi pare faccia differenza.
E poi si vede che non dorme molto, e che è lievemente intontito anche dall’ alcool.
Sembra che sia prossimo a lasciarsi abbandonare tra le braccia di Morfeo, ormai ha vissuto anche questa giornata, e guarda al domani con quella paura che solo le persone sole possono capire, le persone che come me capiscono cosa voglia dire essere insoddisfatti, non avere ciò che si vuole, anche se lo si merita, e se si ha sempre fatto di tutto per averlo.
Già, si vede che il pensiero è rivolto a cosa starebbe facendo lui con Sara in questo preciso istante, e cosa farebbe nella sua vita con lei.
Ma non può, non posso, lei ormai mi è stata tolta.
Mi sto guardando allo specchio, vedo finalmente il mio volto, la mia sofferenza tatuata sulla mia pelle e gli squarci nel mio inconscio, nella mia anima.
Domani sarà un altro giorno in cui sopravvivere, solo per portare nel mio cuore i suoi mille gesti, e i miei e i “nostri” mille progetti, una semplice casa, un matrimonio, un bambino, forse un cane.
Il sogno poi di ogni persona.
Una famiglia felice e soddisfatta.
Riuscita, con cui percorrere la vita, insieme, per mano.
Tutto negato dalla fame e dalla crudeltà di un uomo morto e rinato sotto le spoglie di una creatura maledetta da Dio, e punita alla vita eterna.
Un vampiro che si nutrì dell’unica mia ragione di vita.
Che messe la sua anima innocente e catturò per sempre la mia vita, convogliando ogni mio sentimento in odio da usare come arma per disintegrare ogni forma di vampiro da questo Eden rubato.
Per sempre solo, mai nessuno riempirà gli spazi lasciati vacanti dall’infausto evento. Non lo voglio e non lo permetterò mai.
Un solo cuore appartiene all’uomo, e il mio l’ ho già dato in custodia a una persona, ora non più presente.
Ma circondato da mille e più cose che la riguardano.
Persino la casa era sua, me l’ha lasciata in eredità. Insieme a tantissime altre cose.
Entrambi eravamo due anime sole, senza nessuno, a parte l’altro al mondo, non una famiglia, non un cane su cui contare.
Nessuno.
Sarò felice solo nella morte, ma prima, prima di dipartire, voglio spazzare via ogni germe vampirico dalla mia strada.
Ora sono stanco, domattina dovrò svegliarmi per mezzogiorno per andare al lavoro, già quello stupido lavoro in quel supermercato di bassa lega, che però mi da soldi, e cattura la mia attenzione, spostandola dalla notte.
La mia notte appartiene solo a loro, solo ai miei amati vampiri.

“Per sempre e nonostante tutto”, fu una delle ultime promesse che ci siamo fatti.

A volte il destino ci riserva strane bastardate.

Ora vado a dormire, vado a rinchiudermi in luogo dove lei può raggiungermi, parlarmi.
Mi dice spesso di provare a vivere con altre persone, di lasciar perdere la mia caccia notturna, ma io non voglio, non voglio dover amare altre persone.
Sarà infantile, ma nessuna deve toccarmi l’anima come a lei era permesso.
Nessuna.
Solo, ho una tremenda paura di svegliarmi, la luce della realtà mi spaventa, perché mi palesa che lei non c’è, mi mostra che io ero un dormiente, è che la felicità non mi appartiene.
Il mio corpo è esausto, il mio cranio brucia, e nelle mie vene scorre troppo alcool, per continuare a stare attivo e sveglio. E sento uno strano calore in un punto preciso del mio corpo, vicino alle reni, come se qualcosa di piccolo mi fosse vicino. Forse sono solo troppo ubriaco e stanco, in entrambi i significati che questa parola mi ricorda.
Devo assecondarmi e calarmi nelle terre oniriche, a cavalcare nuovi sogni.

Un suono maledetto mi strappa dalla realtà che amo, per portarmi alla realtà in cui vivo.
La mia odiata sveglia, a cui ho dato questo compito, mi ricorda che sono le 11.30 del mattino, e mi dice che ho un posto di lavoro a cui andare.
Assecondo questo trillo, mi alzo.
Scopro di non aver passato la notte da solo, qualche altra creatura reale in questo e  per questo mondo è stata vicina al mio corpo, alla mia schiena, scaldandola.
È “Kat”.
Un gattino randagio dal pelo nero, liscio, lucido e proprio come me senza nessuno al mondo.
Due occhi gialli e profondi, più significativi della maggior parte degli uomini e donne che conosco.
A volte passa dall’abbaino e viene a passare del tempo con me.
Mangia, dorme, vive senza pretendere nulla da me. Entrambi non adoriamo le effusioni, anche se raramente ci permettiamo alcune carezze, reciproche e di sicuro effetto.
Forse ha sentito che avevo bisogno di qualcuno con cui passare la notte, richiamato da una solitudine che anche lui conosce bene.
Altro non ho da dirvi.
Non piangete per me, non auguratemi nulla, lasciatemi da solo a sopravvivere in questa Utopia che è la vita, che è la città in cui vivo, che è l’ America. Che è il nostro mondo.
Dove qualcuno sceglie come vivere, o meglio s’illude di poterlo fare, ma  dove i più semplicemente sopravvivono, sopportano, bevono ogni giorno la stessa parte di vita che gli viene data, chiedendosi continuamente perché essi respirino, e quale Dio, di quale religione, si sia permesso di crearli.

Questo sono io un figlio di Babele, un italo-americano che cammina da ventisette anni su una strada di una città qualsiasi, per quanto v’importa, degli Stati Uniti d’America, dove la libertà si compra e si ottiene solamente con la morte.

Un uomo che fuma solo quando uccide una sua vittima.
Una sigaretta, una Marlboro light, per ogni vampiro ucciso. Quando del sangue maledetto lo ricopre.
Un pacchetto intatto nel mio cassetto a casa, e un pacchetto già incominciato nella tasca del mio cappotto nero lungo.
Il mio nome è Johnny.


Jonathan Dellangelo
 

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"Per cadere, basta una spinta.
Per volare, ci vuole perseveranza." 

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